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Il programma impaginato dal duo Acri-Bevacqua si presenta sotto il segno della relazione reciproca tra gli elementi in gioco o di quella che l’antica retorica avrebbe chiamato commutatio: un fitto intrico di rimandi tra un brano e l’altro; una concatenazione che diventa anche trama sottile di presupposti e di realizzazioni, di aperture verso il futuro e di accoglimento, ovviamente non passivo, delle sedimentazioni appartenenti al passato. In tal senso, il Beethoven della Kreutzer è accolto, come irrinunciabile termine di confronto, nella seconda Sonata di Brahms, che a sua volta, per l’andamento in frammenti che caratterizza l’“Allegro amabile” di apertura, sembra presagire, per quanto a lunga distanza, il linguaggio microcosmico dei Quattro pezzi di Webern. Una narrazione unica sembra cementare il rapporto tra queste pagine, dalle quali promana, in tutta la sua complessità, la potenza del moderno. Anche le diverse stagioni esistenziali che le caratterizzano – pur nell’estrema varietà delle biografie coinvolte – riproducono un andirivieni temporale che riflette la tensione innovativa della proposta: un Beethoven convenzionalmente “di mezzo”, accanto a un Brahms maturo e tardo, verso un Webern giovane e rivoluzionario, che appunto ricorda il Beethoven più innovatore.
La Sonata per violino e pianoforte n. 9 in la maggiore op. 47, comunemente (e, in una certa misura, erroneamente) associata al nome di Rodolphe Kreutzer, e che risuona nell’immaginario collettivo anche per l’omonimo romanzo breve di Lev Tolstoj, ha una gestazione rapida e un’occasione ben precisa: è per il violinista George Augustus Bridgetower che il compositore di Bonn concepisce il brano nel 1803;
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