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Da giovane scrivevo musica senza farmi troppe domande, ovvero: senza prendere coscienza delle domande che (mi) ponevo. Scrivevo scavando nel suono degli strumenti e quel lavoro di scavo era il mio unico orizzonte di consapevolezza: parliamo di un ragazzo.
Nella cultura musicale afroamericana, attraverso cui sono entrato nella musica, uno dei dati fondamentali è la personalizzazione del suono: all'interno di un'espressione collettiva, ogni musicista aspira ad una manifestazione di individualità la cui riconoscibilità è premessa indispensabile all'esperienza comunitaria.
E' probabile che quel mio scavare non fosse altro che una manifestazione radicale di quel particolare punto di vista che, però, andava ad incontrarne anche altri, patrimonio della musica di tradizione scritta più recente (lo sperimentalismo, non solo americano, degli anni '60 e '70, le esperienze di Nono, Sciarrino, Lachenmann).
Movimento-sguardo-orizzonte (2001) nasce immediatamente a ridosso di quel periodo, in un momento in cui il rapporto con la cultura afroamericana (e le culture di tradizione orale) era diventato un momento di riflessione consapevole. Elementi di quella tradizione appaiono trasfigurati nel violoncello che a sua volta non è pensato/vissuto come un campo neutro produttore di suoni, ma come un luogo in cui si deposita un'altra storia.
Nella sua rivendicazione di pariteticità fra due culture che si sono trovate storicamente in una relazione conflittuale di dominio, lo considero un pezzo politico, come politiche, in senso lato, possono essere considerate molte composizioni di Bartók.
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